Gaetano Pompa
Pittore, Scultore, Incisore, Maestro in Maiolica e Disegnatore (1933-1998)

Sgarbi Vittorio

Emancipazione dal presente.

 

Romano, Gaetano Pompa è un artista intrinsecamente romano. Ma, naturalmente, non in rapporto e non del tipo dei pittori della Scuola Romana di questo secolo, dei quali negli ultimi anni si è ritornato a parlare: romano nel senso antico. E, anche qui, con eccezioni. Infatti il mondo romano cui egli guarda è più volentieri quello della decadenza. Quello incrociato con i barbari. E si capisce, perché metà dell'ispirazione di Pompa è tedesca. Tedesco-romana, ma senz'alcun rapporto con il classicismo estatico dei Nazareni o il simbolismo dei Deutsche-Römer. Insomma, Pompa vive nella Roma di Commodo e nella Germania di Massimiano. Il suo classicismo potrebbe maturare in una città come Treviri, oppure a Roma stessa, ma dentro i confini fisici e psicologici dell'impero. Credo che Pompa sia l'unico, finite le scuole dell'obbligo, che, per riferirsi a noi, cioè a quanti vivono di là del Po, dice: "Voi Galli". Ed ecco un "gallo" scrivere di lui, fra inospiti nebbie e con un compito facile e impegnativo al tempo stesso. Gaetano Pompa, infatti, nonostante gli anni di lavoro e con l'immensa mole di opere prodotta, non ha quasi bibliografia. Vedo frequentemente giovani artisti, ben provvisti di cataloghi, monografie, articoli di critici, pronti a squadernare il loro curriculum. Pompa preferisce far parlare le opere, ed è quindi infinitamente meno noto di quanto meriterebbe, non soltanto per la logica perversa che domina l'arte del nostro tempo facendo prevalere i peggiori, ma perché egli non gode neppure dei vantaggi di quella circolazione del nome e dell'immagine che è garantita da una pubblicazione, al di là delle incomprensioni della critica e delle imposizioni del mercato. Nondimeno è noto e apprezzato presso i collezionisti per i quali ha lavorato e lavora con impegno e costanza, e chi lo ha conosciuto ne è naturalmente estimatore. Non si può infatti non riconoscere, avendo l'avventura di conoscere, la prodigiosa forza di invenzione di questo artista, la sua ricerca continua di nuove soluzioni tecniche, modi di essere della forma per esprimere un mondo ideale, popolato di eroi e di amici, di uomini di lettere e di animali, di poeti e di personaggi, in diverso modo mitici. E Pompa nella sua officina, nella fonderia, lavora dentro tutte le tecniche, dalla pittura alla ceramica, dalla grafica alla scultura. Incide gigantesche lastre di rame che tira in bellissimi esemplari ma, conoscendo la difficoltà del lavoro, non nasconde la fase progettuale: il cartone, il disegno e la lastra di rame, soprattutto, che sente come un'opera compiuta con autonomi valori di materia e di luminosità. A Pompa piace cimentarsi in imprese laboriose, non vuol riprodursi, ripetersi, star quieto, pur avendo un'idea molto coerente, nelle infinite variabili, dell'immagine. Non ha né un modulo né una sigla: ha, come pochi altri, uno stile molto vincolato al disegno, alla grafica, con un cromatismo secco, semplificato. Egli esprime una energia in continua espansione che non si può stabilire entro nessun confine prefigurato. Grande artigiano dalle mille prove, Pompa lavora tenacemente all'"opera" senza essere in modo privilegiato scultore, pittore o incisore. L'"opera" è una cosa sola che non si ferma e che non si chiude in se stessa, e ancora si espande e si prolunga nell'attività del figlio, Adriano, che lavora dentro la bottega e dentro il mondo del padre. Per entrambi la pratica dell'arte è la vita nel mito. Pompa e suo figlio non affrontano mai un tema contemporaneo, non lo conoscono, non lo vedono. Perfino gli animali, in loro, sembrano uscire da un libro, da una storia, da Fedro o da un antico bestiario medievale, piuttosto che dalla realtà. Non "un" gatto, ma "il" gatto, tratto da un mosaico pavimentale o da un tavolo di pietre dure; non "una" tigre, ma "la" tigre di una parete cosmatesca. Meraviglie del sogno di Pompa, la cui poesia si nutre di storia come quella di Ezra Pound. Ricordo Pound, ma tra i fari di Pompa (memorabili nell'immagine che egli ce ne ha dato) vi sono anche Kafka e Mishima. E ora, nelle opere più recenti, troviamo Mozart, con Papageno uscito, piume e gabbia, in caccia di uccelli, dal Flauto magico (e "sotto le piume la sua forza è terribile"); l'imperatore Commodo, travestito da Don Giovanni l'imperatore Traiano solenne, paludato e compiaciuto a fianco della sua colonna, come una enorme stufa di ceramica; il principe di legno di Béla Bartók; Donna Elvira dama di Burgos insidiata e abbandonata da un Don Giovanni in forma ("sei qui, mostro, fellon, nido di inganni!") di fallo alato: e sono dipinti e incisioni, mentre troviamo Giuditta e Oloferne e Giuliano l'Apostata, in bronzi di grandi dimensioni, ma eseguiti con la minuzia di oreficerie asimmetriche barbariche. Lo schema del Giuliano l'Apostata è una vertiginosa sintesi dell'Auriga di Delfi e di Paul Klee. Se vi mettete ad ascoltarle, queste sculture parlano, benché nulla abbiano, all'apparenza, di umano. Esse uniscono alla sonorità dei materiali l'evocazione della storia, ponendosi in quel nessun tempo nel quale Pompa vive. Una Roma senza fine che esce dalle pagine di Gibbon, cui Pompa presta l'orecchio, la mano e il cuore. Con questa visione folle, atemporale, intimamente surrealistica, è naturale che Pompa non sia registrato, che i critici non lo vedano. Egli appartiene a quella stirpe di visionari che da noi hanno vita difficile, schiacciati tra realismi e astrattismi. Morti Domenico Gnoli e Gustavo Foppiani, Pompa sogna da solo, giocando a tennis con Carlo Guarienti che ha proiettato i suoi mostri in una dimensione metafisica. Per Pompa il mondo antico è l'unica realtà: Commodo ha dissolto la morale di Marco Aurelio come Don Giovanni ha ucciso il commendatore. Alla morale stoica del padre, espressa nei "Colloqui", a quella solida saggezza, Commodo contrappose un'assoluta indifferenza morale giungendo a uccidere la moglie, la sorella e il prefetto del pretorio. Pompa è attratto e respinto da Commodo, lo guarda con indulgenza trasformandolo in un eroe decadente, in un dandy alla Oscar Wilde. Non giudica, non descrive: contaminando l'immagine con inserti contemporanei perfettamente coerenti, dagli occhiali Ray Ban alle scarpe Church: la moda nega la storia. Sono queste le Mutmassungen, le congetture sull'imperatore Commodo secondo Gibbon: ciò che si vede corrisponde a ciò che si sa. Lo stesso ghepardo di Commodo entra in uno spazio comico quando viene dileggiato da Max e Moritz, che gli legano zampe e organi genitali per addomesticarlo, nelle Mutmassungen su Wilhelm Busch. E ancora un divertimento è la favola di Papageno: Pompa ne esalta la vanità e lo imprigiona nella gabbia per uccelli. Come Commodo, e in fondo come Traiano, anche Papageno è un vanaglorioso, e il suo travestimento stimola la fantasia di Pompa. Certo in queste invenzioni c'è un ricordo di versi di Pound come: "Medon's face like the face of a dory arms shrunk into fins [...] / Fishscales over groin muscles / lynxpurr amid sea...". Quando dall'agilità del disegno Pompa passa all'energia della scultura, il suo atteggiamento è meno ironico e divertito (e soprattutto, se pensiamo che egli riesce a scherzare, sotto apparenza austera, persino con Kafka, prigioniero nel suo cappotto come in un castello). Giuliano l'Apostata che porta sulla veste un medaglione con l'immagine del Dio Mitra, ha un'apparenza severa (come si conviene a un grande statista) sottolineata dal richiamo del panneggio alle pieghe strette della veste dell'Auriga di Delphi. Ma nel contrasto fra il busto e la zona inferiore e nell'adesione delle braccia al corpo, Pompa sembra aver pensato a un'Era di Samo che avesse perso la sua rigorosa linearità in fortunosi ammaccamenti. L'intuizione formale del passaggio dalle pieghe della veste, alle punte diamantate della maglia, alla treccia del colletto, alla sintesi astratta della testa, produce un'immagine assolutamente coerente. Lo stesso si può dire per il dipinto con un paesaggio attraversato da un lungo serpente la cui distesa armonia evoca il Guidoriccio da Fogliano di Simone Martini. Pompa persegue inestricabili intrecci: la tarda romanità si esprime nello stile severo: Commodo si traveste da Don Giovanni con ghepardo; le vedute a cavaliere di memoria trecentesca si impreziosiscono come paesaggi klimtiani. Così, come le tecniche si unificano, la storia si dissolve, gli stili si sovrappongono. Assume quindi un significato stimolante che Pompa abbia recuperato e riproponga quindici suoi quadri eseguiti tra la fine anni '50 e inizio anni '60, nel momento delle ricerche su superfici sabbiose elaborate da Domenico Gnoli su stimolo di Gentilini. Ma esse sono anche testimonianza del fertile dialogo con Burri, proposto in quegli anni dalla Galleria dell'Obelisco. Sono, anche queste di Pompa, ricerche materiche con ceneri d'antracite a rilievo: ma Pompa le interpreta come calchi di reperti archeologici fossili. Lo intendiamo anche in titoli come "Per quei due giorni antichi a Tarquinia". Altre opere, come Fantasmi della primavera, che sembrano aver tratto profitto della conoscenza di Dubuffet, ci appaiono oggi come antefatti per gli attuali bassorilievi, stucchi di preparazione ai bronzi; e Pompa non li sente né lontani né diversi: li ha accolti come il dono che sono, eredità dei Richardson Shepley di Boston che li avevano acquistati da Gasparo del Corso e Irene Brin. Essi, con il loro fuoco giovanile, diventano così un legame supremo tra la vita e la morte, un passaggio nell'Ade da cui ci ritornano combusti e pietrificati come Giuliano l'Apostata, scosso nel suo viaggio a ritroso nella storia. E sono, tutti insieme, nell'ideale cappella costruita nella memoria degli amici perduti, l'equivalente del cippo per Gianluigi Tosti posto al limite dell'aldilà da un uomo antico che non sa dimenticare. febbraio 1989 Mi sono sorpreso a rileggere quanto avevo scritto, ormai più di dieci anni fa, su Gaetano Pompa. Mi sembrano valutazioni ancora attuali, non compromesse dal tempo, capaci di resistere anche a un evento che tutto avrebbe potuto cambiare, tutto avrebbe potuto sconvolgere: la morte dell'artista. E invece mi ritrovo a vedere l'arte di Gaetano Pompa e a rileggere i miei commenti come se niente fosse cambiato. Perché l'arte di Pompa è emancipazione dal presente, viaggio all'interno di un mito senza tempo, una storia immaginaria, una natura visionaria in cui reale e irreale convivono senza contraddizione, sotto la tirannia di un'immaginazione creativa senza freni. Ora anche Gaetano fa parte di questo mito, immagine mescolata fra quelle di Commodo e di Don Giovanni, Mutmassungen egli stesso come lo erano le sue opere; e spetta al figlio Adriano continuare il suo viaggio, come in una ciclicità continua, come in un eterno ritorno. settembre 2002 Vittorio Sgarbi

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